di Rosy Di Stefano

A soli otto anni lasciai terra di Sicilia, terra amara e vilipesa. Emigrante bambino, tenevo in tasca una foglia di carrubo, un alberello che mio padre aveva piantato alla mia nascita. Lasciarlo fu una gran pena.

Navigammo verso l’America per giorni e giorni, vidi acqua e cielo che si mescolavano in uno.

Ah le burrasche, la pioggia e il mal di mare! Ma le onde alte, a spumeggiare vaporose, non inclinarono i sogni di una famiglia d’emigranti, in cerca di fortuna.

Speranze e nuovi soli, giochi di bimbo, mutati gesti, lingue diverse, colori della pelle variegati, avvenire e passato confusi, si mescolarono all’oggi di gente di mare con valigie di cartone. Da lavoratore/studente trascorsi la mia giovinezza, la consegnai per sempre alla chimica e alla biologia, mondo affascinante che solleticava la mia ricerca del nuovo, dell’ignoto. Bios è la chiave della vita e la ricerca scientifica mi infiammò l’animo. Non lasciò tempo per l’amore, chè la scienza, fiume di fuoco nelle vene, unita alla volontà mia d’acciaio, sostenne solitudini e affanni.

Perseguii diversi titoli accademici all’Università del Connecticut, mi immersi in un intenso lavoro, mi impegnai in studi di ricerca scientifica.

Feci una moltitudine di pubblicazioni e comunicazioni a congressi nazionali ed esteri, inoltre collaborai con gruppi di ricerca italiani e stranieri. Per amare c’era tempo e la febbre della sapienza divorava la mente agile, mutando la mia vita in volo d’aquila dalle evoluzioni infinite. 

Poi la nostalgia della mia terra, assolata e lontana, si instillò nel sangue.

Volli visitare il carrubo, albero solitario della mia terra natale, rami frondosi attaccati a un fusto possente. Ripercorsi le orme dei padri.

Mi bagnai nelle acque di Ognina, visitai Aretusa e Alfeo, vidi le gesta di grandi uomini nei monumenti, amai la storia dei barocchi Netini.

Incontrai il vulcano, disteso come un dio a dominar la costa di mare. Della mia terra antica inalai l’odore e nel mare adamantino urlai alle onde: non parto più!

Terra di sole mi aveva stregato e si agitavano al vento i miei pensieri. Dai Fichi d’india estrassi la linfa, medicamento per ferite aperte, a cicatrizzare crepe del corpo. Dalla buccia dei limoni carpii segreti per la giovinezza, ma la mia vita senza una donna era come arcobaleno senza colori.



Continuai a collaborare con gruppi di ricerca italiani e stranieri, divenni professore universitario, ebbi tanti allievi.

Centinaia di giovani del Sud impararono dal mio sapere e a loro diedi in eredità la mia devozione per la ricerca.

L’amore arrivò tardi.

Ricordo ancora i capelli di lei sciolti, morbide ciocche a decorare il viso. Portava un camice bianco e agitava una provetta. Era una biologa tedesca, e sotto il cielo di Germania la baciai. Aveva gli occhi dal taglio ovale e labbra vanigliate. Passo deciso a danzare nelle movenze della gonna a fiori, tessuto leggero ad accarezzare le nude gambe.

Nostro figlio nacque al tempo delle rose, riccioli neri e carnagione nordica, piccolo marmocchio affamato di carezze e latte riempì il mio mondo di scienziato, chè le diverse mie lauree non potevano essere sì preziose quanto quel figlio, a bagnare come pioggia d’amore la vita mia. Divenni padre con i capelli già imbiancati, ma negli occhi tenevo sogni bambini da realizzare. Volevo fare qualcosa per la mia terra abbandonata, dea mediterranea, da sempre sfregiata. Metastasi avviluppate alle radici ne impedivano il rigoglio.

Fui uno degli scopritori del citocromo p 450, cominciai a produrre enzimi, creai macromolecole…

Feci grandi scoperte ed ebbi vari riconoscimenti, feci viaggi intorno al mondo. Tra le mura della vecchia stalla di mio padre, circondato dai miei allievi, mi impegnai, a produrre enzimi. Volevo far le scarpe ai Giapponesi, che vendevano a peso d’oro il loro prodotto. E vinsi la scommessa.

Riuscimmo con grandi sforzi e sacrifici ( la vecchia stalla, anche se ristrutturata, non riusciva ad ospitare i numerosi allievi che collaboravano con me ) a purificare la Neuraminidase. L’urlo di vittoria risuonò per i viottoli di Asparano, tra le rose e i giacinti del mio giardino. I miei studenti non stavano nella pelle! Avevamo inventato un prodotto altamente competitivo e riuscii a portare il prodotto nel mercato farmaceutico, in barba ai Giapponesi!

Della scienza, mia musa, ne feci anelito di vita.

Quando la mia donna partì da terra di Sicilia, portò con sé il mio figlio diletto. Per anni non udii più la sua voce di pargolo e lottai come un leone per riaverlo, almeno per le vacanze, chè lontani dal carrubo, per chi tiene sangue siciliano nelle vene, non si può stare. Crebbe il mio bimbo e divenne uomo, la pelle chiara come neve, gli occhi di pietra lava, semenza d’amore, risata cristallina.

Quanti voli su nel cielo a raggiunger continenti! Io e il figlio mio ad attraversare oceani, per la gioia di pochi giorni, tessere dorate di mosaici bizantini, dolce balsamo di vita amara…

Sotto la frescura dei rami contorti del carrubo, la sera prima di partire, saluto gli amici.

Vado a New York a raggiungere mia madre e i miei fratelli, rimasti sempre in America. Mio figlio mi raggiungerà come al solito, trascorreremo un mese intero insieme, il mese di Agosto.

I lunghi mesi di lontananza sottolineano sempre più l’assenza sua e il lavoro estenuante non impedisce la nostalgia di lui.

Verso vino nelle coppe vuote degli amici e miro i riverberi della luna tra le foglie tremule.

Stringo tra le mani un calice ricolmo, sediamo tutti attorno all’albero di carrubo, come sempre. Osservo le sue fronde, poi con gli occhi umidi, sottovoce, mi avvicino a toccarne il fusto imponente: “ Il carrubo è malato, è il primo anno che non da frutti… “. Dalla terra di Sicilia porto con me una foglia dell’albero fratello. Forse sapevo che non sarei più tornato.

Abbiamo due voli diversi, io e Ninuzzo, ma decido di partire assieme a lui e faccio il mondo in quattro per avere la stessa prenotazione dalla agenzia di viaggio.

Lo voglio tenere ancora con me il figlio della discordia, il mio amato figlio Nino, abbraccio di futuro, pioggia d’estate, adolescente in fiore.

Il mese d’agosto è stato splendido, è passato in fretta assieme a lui e ai miei cari. Mi stupisco di quanto sia cresciuto, guardo il mio piccolo uomo e mi sento fiero d’esserne padre.

Nel volo New York – Ginevra, a solo un’ora dal decollo dall’aeroporto John F. Kennedy, un fumo acre avvolge la cabina di pilotaggio. Si tenta un atterraggio d’emergenza ad Halifax. Ninuzzo mi stringe le mani, sgrana gli occhi. Lo stringo forte facendogli scudo col mio corpo. Voglio proteggerlo, io … che gli diedi la vita. Sento le urla delle madri attanagliate dal terrore, dei bimbi in lacrime, e i gemiti inesprimibili di uomini prossimi alla morte….l’aereo della Swissair precipita…l’ultimo volo prima dello schianto.

La sterile annata dell’albero di carrubo fu presagio di morte, tengo ancora in tasca la foglia rinsecchita e la accarezzo per un solo istante, mentre preparo l’anima mia a nuova vita.

Prego.

Prego il Signore, chè salvi almeno lui, il mio adorato Nino….Ma si arresta il volo, rompendo la notte e strappando le stelle. A Nova Scotia, abbracciati nel gelido mare, rimaniamo sepolti, abbracciati dalle acque nere. Il maglione blu scuro di un bambino, la pagina di un libro di matematica, una borsa di cuoio, corpi di uomini, brandelli di vestiti, la carcassa dell’aereo in mille frammenti… tutto oramai è alla deriva.

Nelle acque buie dell’oceano finimmo d’esistere.

Più in là un pittoresco villaggio di pescatori si anima.

La gente del luogo, terrorizzata dal frastuono, dalle fiamme e dal violento impatto dell’aereo con le acque, accorre numerosa. Pescherecci si inoltrano tra i flutti, a recuperare vanamente qualche superstite.

Qualcuno di loro dice di aver visto l’esplosione del velivolo, e poi fiamme di corpi e metalli svanire nell’acqua. Orrore e sgomento.

Io e Nino ci mischiamo insieme alle acque e diveniamo mare.

La luce del giorno slitta rapidamente in oscurità a Long Island e le correnti rapide disperdono in fretta i residui dei nostri corpi, portandoci lontano.

Solo l’esame del nostro DNA, riuscirà a dare un nome ai numerosi corpi senza testa, busti senza braccia, membra spappolate. Cibo per balene.

Talvolta torna la mia anima tra i fichi d’india e il mare di Sicilia. Ripercorro i passi della vita mia e in fremiti d’amore vorrei porre rimedio agli sbagli miei. Ma ciò non è dato a chi lascia il corpo fisico.

Il mio carrubo è morto.

Le sue radici sono state estirpate qualche mese dopo la mia dipartita. Chè nulla siamo in questo mondo, se non polvere caduca, nell’infinito universo che muta.

Una madre dai lunghi capelli neri, ancor oggi piange.

Nessuna consolazione a colorare le algide gote.

Sa che nulla potrà più animare le ore spente dei suoi giorni senza sole. Nessun raggio a rischiarar le coltri sui suoi sogni perduti.

SWISSAIR FLIGHT 111

Il 2 settembre 1998, Victor Rizza muore assieme all’unico figlio, Nino, nel tragico incidente del velivolo della Swissair, precipitato nelle acque dell’Atlantico, ad Halifax (Nova Scotia). Nessun superstite.

A sette anni dalla tragedia, in cui morirono 14 membri dell’equipaggio e 215 passeggeri, non si conoscono ancora le causa dell’impatto mortale.

http://en.wikipedia.org/wiki/Swissair_Flight_111


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